Haiti, dalla disperazione più profonda rinasce la speranza
Suor Marcella Catozza, missionaria francescana, descrive la realtà dell’isola caraibica, dal 2005 terra di missione della religiosa
Dario Salvi
Roma

Ad Haiti la sproporzione fra “dolore e fatica quotidiana” dell’uomo e la “domanda di felicità” insita nel cuore di ciascuno “è così evidente”, che “solo l’abbraccio di Cristo può diventare una risposta e, insieme, un cammino da percorrere”. Così Povertà, violenze, malnutrizione e il dramma del terremoto non hanno intaccato la speranza di un “cambiamento possibile”, che nasce dall’incontro con i ragazzi di una baraccopoli in cui, prima di lei, nessun bianco – nemmeno le forze di pace Onu – aveva mai osato mettere piede. Nello scorrere del tempo a Waf Jeremie, nel continuo alternarsi di devastazioni e ricostruzione, è racchiuso “il senso della fede, il senso della storia della Chiesa fatta di centinaia di uomini e donne che, in silenzio, nei luoghi più assurdi del mondo, hanno dato forma alle speranze e alle aspettative di cambiamento dei poveri”.

Già, perché la missione di suor Marcella si è sempre articolata in territori impervi e in situazioni a rischio, nelle quali ha messo in pericolo la sua stessa vita. Come successo alla fine degli anni ’90, durante il periodo trascorso in Albania: in un primo tempo la religiosa francescana si è mobilitata per organizzare l’accoglienza dei profughi kosovari nel pieno dell’emergenza, poi ha guidato l’allestimento dei campi in cui hanno trovato a lungo cibo e riparo i rifugiati. Ma dal Paese balcanico suor Marcella è dovuta fuggire qualche anno più tardi, salvata da un blitz dell’esercito italiano, perché si era opposta alla tratta delle prostitute albanesi, provocando la reazione della mafia locale intenzionata ad ucciderla. Dal Paese delle Aquile è volata – dopo una breve parentesi in Italia – alla volta del Sud America, destinazione Brasile. Sull’isola di Parintins, nell’omonima città incastonata nel mezzo del Rio delle Amazzoni, suor Marcella ha collaborato con il vescovo locale mons. Giuliano Frigeni alla costruzione di asili e centri di accoglienza per bambini orfani o poveri, all’ampliamento di una scuola agricola per i giovani indios e ha contribuito al miglioramento di un centro sanitario, mettendo a disposizione – lei, infermiera diplomata – la propria esperienza nel settore sanitario.
Le realtà di “frontiera” sono parte della sua vocazione perché, spiega, la chiamata “non è mai astratta, ma possiede una forma che non si sceglie, viene affidata, e questo rende più semplice il cammino di fede”. Suor Marcella arriva ad Haiti nel 2005 e l’allora arcivescovo di Port-au-Prince – mons. Serge Miot, morto nel devastante terremoto del 2010 – le chiede di lavorare nella baraccopoli di Waf Jeremie, nella periferia della capitale.
Secondo i dati ufficiali, nella zona vivono in condizioni di miseria e abbandono 70mila persone, ma il numero reale è di molto superiore. Si tratta di un quartiere pericoloso, abbandonato dalle autorità e nel quale le truppe Onu e i bianchi non osano mettere piede. Una zona franca in mano alla criminalità e sommersa dal degrado, perché qui confluiscono le immondizie di Port-au-Prince. “Porta Cristo e la Chiesa a questa gente”: in poche parole è contenuta la missione che l’arcivescovo le affida e la suora francescana svolgerà nei successivi sei anni in modo appassionato. “Ho impiegato tre mesi – racconta – per entrare a Waf Jeremie perché ero una bianca”. Uno dei tanti tifoni che colpiscono la zona durante la stagione umida abbatte moltissime baracche, seminando morte e devastazione. Suor Marcella si prodiga nella ricerca dei sopravvissuti: “mi immergo nel fango fino alle ginocchia e vivo assieme a loro questa esperienza di dolore”. Una scelta che le apre le porte della baraccopoli e le consente di entrare nei cuori dei suoi abitanti
Con un primo gruppo di quattro giovani inizia un percorso che, nel tempo, porterà alla costruzione di una scuola, un ambulatorio pediatrico; ma soprattutto, continua, “diventiamo il segno evidente di un cambiamento possibile”. Un tentativo di uscire dal dramma e la miseria che viene osteggiato da quanti, attorno alle disgrazie altrui, costruiscono un sistema criminale in cui vige la legge del più forte. “Lucien – spiega suor Marcella – uno dei primi quattro ragazzi ad unirsi al gruppo, una fonte di speranza per gli altri giovani, è stato assassinato di recente. Un delitto barbaro, compiuto da quanti, nella baraccopoli, non vogliono il cambiamento. Abbiamo dei nemici, perché il nostro modo di vivere è diventato una proposta. E Lucien ha pagato il prezzo del cambiamento con la vita”. Ma gli ostacoli a una trasformazione di Waf Jeremie arrivano anche dalla natura, nei suoi risvolti più drammatici e devastanti: il terremoto del 12 gennaio 2010 mette in ginocchio un intero Paese, causando 250mila vittime, devastazioni e un’epidemia di colera che, nelle settimane successive al sisma, complica ancor più il lavoro di volontari e soccorritori. Per un lutto familiare, Suor Marcella si trova in Italia mentre il terremoto devasta l’isola caraibica; col primo ponte aereo disponibile, allestito dalla Regione Lombardia, rientra ad Haiti e si trova di fronte uno scenario “drammatico”. Per i sopravvissuti della bidonville il ritorno della missionaria è fonte di stupore; con loro ricomincia il lento e faticoso percorso di ricostruzione, perché “la realtà è il compito della vita”. “Non sono lì – ribadisce suor Marcella – per risolvere i problemi di Haiti. Ma sono affezionata alla vocazione e mi accorgo del bisogno”.
Dalle macerie del sisma, riparte ancora una volta il cammino di missione della suora che porterà, nei mesi successivi, alla realizzazione di nuovi progetti sostenuti economicamente e materialmente da amici e volontari dall’Italia. A quanti le chiedono dove trova la forza della speranza, Suor Marcella risponde con un aneddoto che risale ai drammatici giorni del sisma: “Sulla porta di una delle centinaia di migliaia di baracche di Waf Jeremie – racconta – un uomo aveva scritto ‘et verbum caro factum es’. Mancava la ‘t’, perché scritto da una persona che non conosce certo il latino, ma ricordava una preghiera in lingua straniera. Aveva sentito il padre recitarla negli anni… pur non conoscendone il significato, quell’uomo aveva voluto trascrivere come segno di speranza quella frase dal significato oscuro, ma così carico di simboli”. Suor Marcella per mesi si è recata davanti a quella porta a pregare l’Angelus, per “guardare a questa realtà con occhi che non fossero i miei”. L’impegno e la passione della suora hanno contributo alla nascita di “Vilaj Italyen” – villaggio italiano in creolo, ndr – un progetto che ha portato alla costruzione di case in muratura colorate “per dare volto alla bellezza”, un poliambulatorio, una mensa per bambini, una chiesa, acqua potabile e persino un campo da calcio, oltre a un centro in cui studiano e mangiano 300 bambini che, in un futuro prossimo, accoglierà anche 300 portatori di handicap.
“C’è un punto – conclude suor Marcella – dal quale possiamo ricominciare: questo punto è Cristo, se non fosse per Lui sarebbe inutile restare ad Haiti”.