Una vita segnata dalla malattia di un handicap gravissimo, pesante dovunque, ma qui in Haiti ancora di più. Genitori che ti abbandonano perchè di un giocattolo rotto non si sa che farsene. Medici che fanno esperimenti facendo credere a possibili miracoli. Ospedali in cui preferiscono non guardare i problemi seri e sviare evidenziando patologie più semplici.

In Haiti si nasce, in Haiti si muore, sfrecciando come meteore dentro all’eterno, quell’eterno in cui anche loro entreranno e forse davanti a noi. Cosi Shamirà è sfrecciata tra noi e come tutte le frecce ha indicato qualcosa: a noi il desiderio di capire cosa, il desiderio di non far andare persa la sua vita.

Dopo il pomeriggio di mercoledì in cui il respiro è cominciato affannoso e la fame d’ aria era impressionante, una notte in cui il cuore non voleva arrendersi, Shamirà combatteva la sua battaglia per stare attaccata con i denti alla vita. Quella vita che ai nostri occhi non le aveva dato davvero niente ma che davanti a Dio aveva un valore unico ed irripetibile. Quella vita che le era stata data per un compito, forse per provocare noi sempre dormienti davanti al reale ed impegnati a lottare per incastrare la nostra misura in tutte le cose. Attaccata con i denti, aggrappata con tutte le sue forze. Il respiro sempre più affannoso, il cercare di sedersi per aiutarsi a respirare, l’insofferenza, le lacrime di chi le sedeva accanto. Giovedì mattina la situazione peggiora, inutile l’ennesima corsa in ospedale, dobbiamo lasciarla andare. Sgomento negli occhi delle donne che seguono i bambini portatori di handicap: in Haiti la morte e la vita corrono insieme, i più forti ce la fanno.

In ufficio cerco di lavorare ma la testa corre alla cameretta di Shamirà che sta combattendo la sua battaglia. Quella bambina di poco più di due anni mi provoca: cosa vuol dire la sua vita e cosa vuol dire la sua morte. Perché? L’eterna domanda dell’uomo, di sempre…. perché? Così ogni ora passo a trovarla. Alle tre le lacrime scorrono sul suo viso, non  ha più forze ma non vuole lasciarsi andare. La prendo in braccio, la stacco dal suo lettino e vado a sedermi nel patio sulla sedia a dondolo. In un abbraccio che vuole parlarle di altro, di una nostalgia lontana che il mio cuore vive, di Un Volto che tra poco lei incontrerà. Canto le ninna nanne che conosco e i canti alla Madonna più dolci che ci siano. Le parlo, la stringo nel calore di un abbraccio che non è mio. Le appoggio la testa sulla mia spalla. E piano piano, dolcemente si abbandona. Il respiro sempre più leggero, le lacrime si fermano, il capo è reclinato sulla mia spalla ed in un istante Shamirà è afferrata dall’Eterno per sempre.

È bastato un abbraccio per permetterle di fidarsi di ciò che stava accadendo; è bastato un abbraccio perché dicesse il suo si; è bastato un abbraccio per testimoniarle il bene preparato per lei.

A noi non basta mai neanche questo abbraccio, dobbiamo essere noi a condurre le cose, non vogliamo affidarci….. ma Shamirà sfrecciando tra noi della Kay Pè Giuss ci ha ricordato che l’unica possibilità che abbiamo di essere uomini è affidarsi a chi sa per cosa siamo fatti e dove stiamo andando, a chi sa come portare a compimento la nostra umanità, a chi sa che la misura della vita non la diamo noi, a chi sa che un abbraccio può donarci la pace.